GLI ZUAVI A PALESTRINA NEL 1864: LA PRIMA LETTERA DI HENRI LE CHAUFF
Nell’ultimo decennio di vita, l’esercito dello Stato Pontificio fu costituito per lo più da zuavi; il corpo degli zuavi fu fondato nel 1861 da Francesco Saverio de Mérode, cameriere personale di Pio XI ed ex militare della Legione straniera francese nel tentativo di riorganizzare l’esercito pontificio e difendere lo Stato dagli attacchi militari del Regno d’Italia che premeva per la presa di Roma e la riunificazione della penisola. Il corpo era costituito in maggioranza da volontari francesi e belgi venuti a Roma per difendere il Pontefice.
Tra il 1861 e il 1866, il comandante degli Zuavi pontifici fu il colonnello de Becdelièvre.
Qualche tempo fa siamo venuti a conoscenza di un libro di ricordi pubblicato da François le Chauff de Kerguenec, un ex zuavo pontificio: Souvenirs des Zouaves pontificaux 1864, 1865 et 1866. Questi aveva raccolto, e pubblicato a Parigi nel 1891, 93 lettere che il fratello Henri aveva spedito al padre in quei tre anni trascorsi nel reggimento pontificio. Quattro di queste lettere (dalla 55 alla 58), furono scritte durante il soggiorno della sua compagnia a Palestrina.
La prima lettera fu spedita il 2 novembre 1864; Henri racconta al padre che la sua compagnia, composta da 90 uomini, aveva avuto ordine da parte di de Mérode di partire da Frascati, dove era stata di stanza per diciotto mesi, per Palestrina per debellare una banda di briganti che terrorizzava il paese e quelli dei dintorni. Lo zuavo racconta ogni minimo particolare del viaggio e del soggiorno prenestino.
“Verso le tre del primo novembre, festa d’Ognissanti, – scrive – abbiamo scaricato i nostri bagagli. Palestrina, per il folclore, non è minore a nessun’altra città italiana, per come è ben appoggiata e si stende con grazia sul fianco della montagna! Le sue strade formano tanti piani sovrapposti, e le sue case bianche, fiancheggiate da una moltitudine di frangivento di tutti i colori, hanno un effetto molto allegro”. Nell’attesa di arrivare a Palazzo Barberini, che il Gonfaloniere aveva destinato loro come caserma, assistettero al passaggio della processione col SS. Sacramento. “Questo momento è stato superbo – scrive ancora – il ricordo di questa compagnia, in ginocchio per terra, che adorava il Dio dell’Eucarestia, era così profondo; il signor d’Albiousse comandava con voce così vibrante e il maneggio delle armi era stato fatto con tanta precisione, e con tanto rispetto che l’impressione della folla è stata profonda e noi stessi siamo rimasti molto commossi”.
Dopo la processione, gli zuavi partirono per il palazzo, una salita di ben quattromila gradini per giungervi… “Ma cazzo! – esclama appena arrivato – momento di soddisfazione quando contemplammo il superbo panorama che si apriva davanti ai nostri occhi, o meglio sotto i nostri piedi! Da li, l’occhio stupito scopre tutto lo Stato Pontificio. Questo Palazzo Barberini, che è una massa colossale, non è stato abitato se non da avvoltoi, gufi, corvi e soldati quando si tratta di passare per Palestrina”.
Il comandante, però, giudicando che la salita quotidiana al palazzo, ripetuta più volte al giorno, non fosse pratica, chiese al Gonfaloniere un altro posto dove poter alloggiare la compagnia. I frati trinitari accolsero volentieri la richiesta del Gonfaloniere di far alloggiare gli zuavi nel convento di Santa Lucia e così, il giorno dopo l’arrivo, i soldati si trasferirono nella nuova sede.
“Prima di lasciare palazzo Barberini – scrive ancora Henri – ho avuto occasione di incappare in due meraviglie; la prima è un mosaico lungo cinque metri e largo dieci, trovato a Palestrina nel famoso tempio della Fortuna, di cui ti dirò qualcosa in un’altra lettera. Il soggetto generale è una piena del Nilo e vi vediamo rappresentati tutti gli animali conosciuti a quel tempo e diverse scene della vita egizia. La seconda meraviglia è la bozza di Michelangelo, il profilo della famosa statua della Pietà di Michelangelo che ammiriamo a San Pietro in Roma. Il grande artista, trovandosi a Palestrina, presso il principe Barberini, dedicò il suo tempo libero a scolpire questo enorme blocco, duro come marmo”. Quanti colpi di scalpello avrà dovuto dare! Dopo due ore di questo esercizio e di respirare quest’aria pungente come uno spray alcalino, il principe della scultura, che non aveva ancora vent’anni, dovette ingoiare migliaia di maccheroni!”.
La lettera si conclude col racconto di un piccolo incidente che concluse militarmente la giornata dell’arrivo a Preneste. Prima della ritirata notturna, la maggior parte della compagnia stava chiacchierando nei diversi caffè che si trovavano sulla strada principale del paese; all’improvviso si udirono delle voci che inneggiavano a Vittorio Emanuele, sperando di coinvolgere gli altri cittadini a rivoltarsi contro l’arrivo degli zuavi. Il relatore della lettera così ricorda quei momenti: “M. d’Albiousse, che ha un orecchio fine, fu il primo a distinguere il ritornello rivoluzionario; non aveva appena esclamato A me gli Zuavi! facendo brillare silenziosamente la lama della sua spada, che essi, sciabola alla mano, scesero come un ciclone sulla città Prenestina, abbattendo e spingendo tutto ciò che si trovava sul loro cammino. Le donne piangevano, i bambini urlavano, i cani abbaiavano; uno degli attaccabrighe, che indossava una maschera, se volete, costretto in una casa in un attimo, si butta dalla finestra e si rompe una gamba: ecco, ben fatto! Altri tre furono presi contemporaneamente, nonostante l’agilità e, alla luce di diverse torce che avevamo acquisito, i nostri quattro merli furono portati nella piazza principale.
Diversi zuavi, alquanto accesi, consigliarono a M. d’Albiousse di sparargli sul posto. Il capitano, padrone di sé come dell’universo, ammonisce aspramente i ladri e fa capire loro che in realtà hanno ben meritato di ingoiare un caffé latte (traduzione libera della parola sparare, molto usata da noi); ma che alle suppliche delle madri, alla vista delle lacrime delle sorelle, e in considerazione dell’atteggiamento della popolazione che energicamente rinnegava l’atto di ribellione dei quattro mascalzoni, si accontentò di metterli all’ombra delle carceri di Palestrina, in attesa di Paliano. Paliano è il nostro carcere militare nello Stato. Da quel momento il popolo prenestino ebbe per noi la massima stima, proprietari di caffè e commercianti difficilmente osano chiederci di pagare”.
In chiusura della lettera, Henri comunica al padre di essere stato nominato direttore delle poste per tutto il tempo che la compagnia sarebbe rimasta distaccata a Palestrina. Il libro è arricchito da molti disegni realizzati da suoi commilitoni, quelli di Palestrina sono del visconte di Lambilly.
Complimenti molto interessante queste scene di vita dell’ epoca.
grazie, nei prossimi giorni pubblicherò anche il riassunto delle altre tre lettere.