LA TERZA LETTERA DI UNO ZUAVO PONTIFICIO A PALESTRINA NEL 1864: IL TIMBALLO DI MACCHERONI
La terza lettera di Henri Chauff al padre (57a) fu scritta il 4 dicembre 1864. “Inutile dire, mio caro papà, – scriveva – che mi trovo molto bene nella terra degli Equi. Questa vita avventurosa di pattuglie e imboscate mi piace enormemente. La gente di Palestrina è molto comprensiva con noi. Queste brave persone non devono lamentarsi di noi, perché, oltre a garantire la loro tranquillità, lasciamo cadere molti papetti, e gregorine, nelle loro borsette, poi la nostra fede li edifica e ispira per noi una fiducia assoluta. I monaci trinitari sono affascinanti e si prendono cura di noi”.
Il papetto era una moneta d’argento da due paoli o venti baiocchi che portava l’effigie del pontefice Benedetto XIV ed era così detta, cioè piccolo papa a confronto delle monete più grosse, scudi, mezzi e testoni che avevano l’effigie più grande; corrispondeva ad un franco francese. La gregorina era una moneta d’oro con l’effigie di Gregorio XVI del valore di 5 scudi romani e che corrispondeva a 12,50 franchi.
Gli zuavi, dunque, si trovavano bene a Palestrina, erano rispettati, lasciavano molto denaro ai commercianti locali e, soprattutto, si erano affezionati ai trinitari che li ospitavano e con alcuni dei quali avevano intrecciato un bel rapporto d’amicizia. Ad uno di essi, fra’ Nicola “un giovane frate molto distinto e di ricca famiglia toscana”, una sera fecero uno scherzo. Mentre questi si trovava nel coro, uno zuavo entrò nella sua cella e dispose le assi del letto in modo che fossero sostenute dai cavalletti quel tanto che bastava per non cadere. Quando il frate rientrò in cella, come si sdraiò sul letto, naturalmente le assi caddero insieme a lui con grande fragore; gli zuavi che stavano aspettando, scoppiarono così a ridere fragorosamente. “Anche fra’ Nicola – scrive lo zuavo – ne ride ancora”.
Un altro aneddoto che racconta riguarda il cappellano della compagnia, monsignor de Woelmont, barone che apparteneva ad una numerosa famiglia belga. Una sera che doveva recitare le preghiere ad alta voce, in un campo posto nei prati di Passo Corese, non avendo ancora imparato a memoria la nuova preghiera composta per l’esercito e non avendo luce abbastanza per leggerla, non andava avanti. L’impaziente colonnello allora lo riprese: “Ebbene cappellano, ci siamo?”. Alla risposta del cappellano che aveva bisogno di luce perché ancora non conosceva a memoria la preghiera, il colonnello de Becdelièvre ribatté: “Mille milioni di tuoni! Un cappellano che non conosce le sue preghiere! Ma vai a casa tua!”, e poi ordinò al sergente a lui più vicino di recitare il Padre nostro, l’Ave Maria, il Credo. Naturalmente ci fu una grande risata che durò alcuni minuti, ma poi il sergente Dubois recitò la preghiera “nel mezzo della più grande contemplazione e senza batter ciglio, ed è stato lodevole”.
Un altro racconto che Henri fa al padre riguarda le frittelle di padre Tabardel. Una sera questi era stato incaricato di fare delle frittelle per chiudere la cena, insieme a del buon rum, in compagnia di Henri e di altri tre zuavi; entrati nella piccola cucina, però, i quattro avevano notato che Tabardel non era capace di far saltare le frittelle, anche perché egli aveva gli zigomi di colore rosso scarlatto e sicuramente aveva “fraternizzato col rum avanzato”. “Tenente – disse Tabardel – le giuro che non ho ingoiato una goccia di rum, era semplicemente l’odore che mi saliva al cervello…”.
In realtà alla bottiglia mancava solo un terzo del liquido e le frittelle erano molto profumate, per cui il tenente riconobbe che il padre non aveva toccato il rum. Alla fine, oltre alle scuse, Tabardel ricevette molti complimenti per le frittelle che gli zuavi mangiarono accompagnati da buona musica.
Oltre al servizio di polizia, gli zuavi coadiuvavano i gendarmi in pattuglie e spedizioni. Per passare il tempo giocavano con loro a scopa, accompagnati da belle cantanti. Il costo della serata nei caffè, comprese bevande e sigari, era di cinque soldi a testa.
Henri chiude la sua lettera raccontando di aver pranzato con un parente del povero Luigi Arena, grazie a Groboz, un veterano del battaglione. “Vecchio Chauff – disse Groboz – vuoi mangiare un bel timballo di maccheroni, e un formaggio chiamato cacio-fiori come non l’avete mai mangiato? Lo dico al signor Antonio Arena, di cui sono diventato amico, e domattina, alle undici, ti porterò a casa sua”.
Il menù del pranzo fu manzo in padella, il famoso timballo di maccheroni, – che Chauff aveva sognato anche di notte – e cacio-fiori, un formaggio profumato di fiori. “Il timballo, conclude la lettera Henri, è davvero al di sopra di tutti gli elogi che Grobox gli ha tributato. Se Omero avesse assaggiato una volta il timballo mentre componeva i suoi versi insieme a tutto il tripudio degli dei, ne avrebbe fatto il cibo extra dell’olimpo e il Grande Zeus stesso avrebbe passato il suo tempo a mangiarlo. Questo timballo era perfetto, ci mettono rognoni di vitelli, pezzi di pollo, funghi, ma soprattutto creste di gallo, senza le quali al timballo mancherebbe qualcosa! Ogni casalinga benestante, ogni mattina, fa su un tagliere la pasta della maccaronata che la famiglia mangerà durante la giornata e questa pasta, che si taglia a fettuccine o nastri piatti, è di gran lunga superiore alla pasta sfoglia che si compra in Francia”. Il tutto fu innaffiato da Antonio Arena con un generoso vino da lui prodotto.
Nei disegni, Porta S. Martino a Palestrina e alcuni zuavi.
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